Sara non riusciva a staccarsi da quelle foto, dagli occhi di lui in quelle foto. Due carboni verdi, fermi ma alacri. C'era in essi un'energia che racchiudeva tutta la sua anima, sembrava che ogni cosa della sua anima fosse passata in quello sguardo. Anima di ragazzo fermo, concreto e fortunato. Aveva questa idea, che lui fosse stato fortunato più di lei: bella famiglia, bei genitori, bel fratello bella fidanzata (amica di famiglia). Eppure non aveva l'aspetto del figlio di papà. Ogni impresa della sua vita, secondo Sara, lui se l'era presa, inizialmente per provare ai suoi che lui valeva perché era efficiente, poi ci aveva fatto magari l'abitudine e gli piaceva. Così, gli si era sviluppata, in questa specie di solitudine conquistatrice, una particolare sensibilità. Particolare nel senso ristretto della parola: era una sensibilità acuta, non languida, così nascosta come evidente. Una sembianza che ispirava tenerezza, senso materno e dolcezza. Aveva espressioni che a Sara, ricordavano un fanciullo diligente delle elementari o a tratti, un uomo responsabile e rigido.
Quel suo fare silenzioso, resistente e serio, rimandava a Sara l’immagine del musicista erotizzante, che chissà come mai, aveva così presente nella sua testa. Il ragazzo disciplinato e regolare, l’uomo col bianco e nero nella marsina e nella mente, che si accosta con calma e classe al suo posto nell’orchestra; che è solo, dentro ad essa: concentrato e raccolto col suo strumento, col suo spirito e col suo spartito; che sa, che lì, in mezzo al pubblico, almeno una persona che pensa a lui esiste sempre. Zitto, per ascoltare se stesso e gli altri. Quel silenzio unito a calma che fomenta. Esecutore misurato, bilanciato, nel suonare note che spingono forti emozioni e eccitazioni. Pensò a Salomè e la danza dei sette veli di Strauss, che aveva visto anni fa in un teatro; pensò a quella danzatrice e a quanto erotismo possa uscire da sussulti di musica classica, pensata così pudica e resistente.
“Ho la doccia fuori uso in casa, non è che potresti farmi usare la tua?” Così una sera di agosto lui le scrisse in chat, mentre lei struccata e nuda si era messa al computer, stesa nel suo letto. Quest’insolenza - mischiata a immediatezza e anche a un pizzico di astrusità - le fece pensare a una striscia di un fumetto erotico, a quelle storie dove i personaggi osano, magari perché il loro ideatore ci è passato, o anche perché il mondo sarebbe così coinvolgente, se tutti fossero così fanciulleschi e diretti, (diretti proprio come in una storia per l’appunto).
Lui era nella doccia a lavarsi. Sara aspettava nel soggiorno, seduta nel suo divano rosso, pensava e non pensava, cercava soprattutto di godersi quell’attimo. Situazione strana e singolare, presente per quanto scollata. Il computer era rimasto acceso e lei si mise a finire una conversazione in mail con un altro uomo che le piaceva, più grande di lei. Sara trovava delle somiglianze tra i due uomini, anzi più che somiglianze delle ripetibilità intese come “sincronicità junghiane”. Tutti e due erano musicisti. Alessandro era stato all’accademia della Scala, mentre Ruben, sebbene anche lui diplomato al conservatorio, amava tutto ciò che veniva dalla strada. Uno suonava il fagotto dal timbro sicuro e pieno, l’altro i diversi e disordinati suoni del sax. Alessandro era molto più giovane di Sara, un ragazzo che si comportava da uomo; Ruben più grande eppure un uomo dai movimenti adolescenziali.
“Il fagotto è uno zio lontano del sax”, le aveva spiegato Ruben. A una profana come Sara, i due strumenti, parevano somigliarsi per forma e per il modo in cui venivano maneggiati. Entrambi strumenti liberi, con suoni ben vivi all’interno di un’orchestra; più potente,disordinato e sensuale quello del sax, più tenero e malinconico il fagotto. Il fagotto col suo suono claunesco, le faceva pensare a un giovane ragazzo così com’era Alessandro: idealista, genuino come quel legno, dolce e di un romanticismo sotterraneo e taciturno; che mai rendeva palese la sua malinconia; come il fagotto, anche lui apparteneva ad altri tempi.
Alessandro uscì a torace nudo, il suo corpo abbronzato, strideva con la porta a soffietto bianca del bagno. “T’infastidisce vedermi così?” Era una domanda che lei si aspettava, chiusi e soli dentro il soggiorno, a pochi passi dal letto e a un palmo da un divano rosso. Lei disse di no, e si mise a raccontargli di un certo maestro di ballo che conoscevano in comune. In quegli attimi, a Sara, non le sembrava di desiderarlo, ora che lui era lì, non lo voleva come quando era sola in casa a leggersi le sue parole nella chat. Erano le parole che solitamente colpivano Sara. Quei suoi sguardi oltre le sue spesse lenti degli occhiali, erano scorse interessate alle parole, alle scelte e ai tempi nelle parole. I suoni non li poteva sentire lì, ma li capiva ugualmente dagli intervalli e dal numero di parole che un uomo usava. Così poteva sentire il suono di un uomo (forse anche Beethoven usava questa tecnica?).
Fuori era notte fonda, diversi rumori entravano in quell’appartamento dal bar sottostante. La luna era crescente e di un grigio-blu. Alessandro invitò Sara a quel bar e uscirono. Tutto fuori richiamava l’età adulta di Sara: quei ragazzini al bar e la loro musica, le lattine di coca cola, la musica e i tanti motorini parcheggiati. Cose e atmosfere, che mai le erano appartenute in quel modo, quando lei aveva avuto quella stessa età. Alessandro le stava poco più avanti e lei ne osservava il corpo, era vestito con una maglietta, dei bermuda e delle infradito. Schiena, natiche e gambe perfette, non vedeva alcun difetto in quel corpo.
“E’ così tanto tempo che sono single, che ho quasi paura di non essere più capace di tornare in coppia”; a quelle parole così nutrite e lanciate là da Sara, Alessandro sentì tutta la sua delicatezza spesso imprigionata dietro quelle lenti. La abbracciò lungo le spalle, le baciò il collo e poi la bocca, Sara non se lo aspettava e ogni imprevisto per lei era come un sogno, fonte d’intatta eccitazione. Sentiva le mani di lui così affusolate e amabili; gliele aveva osservate al bar e ora le rivedeva oltre che sentirle: una che le toccava un seno e l’altra accarezzarle i suoi capelli. Salirono in casa e come entrati, una foga assalì entrambi, ma lei gli resistette e lo guardò: le arrivò l’immagine di lui che suonava in un’orchestra, lui col suo tocco delicato e maschile, che guardava lo spartito, e le sue braccia che tenevano quel “bassoon solo”. Le note nere sul bianco, i colori della musica.
Sara prese una sedia e alzata lievemente la gonna, si mise a cavalcarne la spalliera, si strofinò su di essa, guardando il ragazzo negli occhi come a sfidarlo. Lui le prese la testa come a volergliela portare verso il suo membro ma non concluse, l’afferrò lungo le orecchie per bloccarla e la baciò.
Le dita, così leggere di lui, ora le sentiva scendere lungo i fianchi, le alzavano la gonna, le spostavano le mutandine. Sentiva il suo respiro calmo, fermo da silenzi, toccarla e penetrarla assieme a quelle dita. La calma di lui la imprigionava. Lo sentiva quasi come un riposo di ponderazione, il silenzio prima di pubblicare un suono; ma anche un silenzio per ascoltare i loro suoni, i suoni attorno, così come lui era abituato a fare da sempre.
Sara pensò in un attimo che anche per lei, così come per i genitori di lui,“un uomo doveva essere in grado di fare”. Lui muoveva le sue dita e il suo respiro come col fagotto anche nel corpo di Sara.
Lei si mosse e Alessandro la prese con nerbo. Si ritrovarono addossati l’uno sull’altro sulla lavatrice, lei completamente nuda, posata in quel gelato bianco smaltato e sopra il corpo di lui, ancora vestito in parte; lui le stringeva i seni, la baciava al collo e giù scendeva per la strada della schiena. Sara si voltò a guardarlo: i suoi capelli castani e folti, le sue spalle plastiche, le mani che le brandivano le natiche. Poi rigirò il capo verso il muro, chiuse gli occhi e stese ancora un po’ le sue lunghe gambe, ad assaporare il piacere.
Questa donna più grande di lui, questa donna così difficile, confusa e complessa, macchinosa quanto il suo fagotto. Alessandro la guardava da dietro, guardava soprattutto le sue gambe che quasi si stringevano per nasconderne il sesso; le sue natiche gli ricordavano un sedere di bambina, innocente e spudorato. Con quelle gambe lei fremeva all’attesa di un gioco e le allargava; il ragazzo gliele toccava fino ai fianchi e poi di nuovo giù, tutta la sua mano attorno alle circonferenze dei due arti, lisci e castani come un legno di acero. Con le sue dita le inondava il sesso e i sensi, penetrava in quel incavo stretto, e dentro e fuori gli umori di lei salivano assieme alle voglie.
Ne ascoltava i suoi sospiri rumorosi, suoni pieni e quasi neri.
Sara udiva dolcezza da quel corpo giovane, Alessandro leggeva i sospiri di lei come fossero espressione di desideri interrotti, che qualcuno anni addietro le aveva proibito.
Dopo quella sera, non ebbero modo di rivedersi. Sara a volte lo ripensava con una rosa in mano, comprata da lui senza impeto ma con riflessione e un po' di sentimento e poi una volta in palmo, sentita, osservata così come faceva con la ragazza cui era destinata. Quegli occhi vispi che guardavano quel fiore, le labbra che accennavano un sorriso indocile, sì!, Alessandro si specchiava in quella rosa rossa, piena di contrasti come lui.
*Urano secondo l’astrologia, è il pianeta legato alla
musica, alla follia, ai dirottamenti.