martedì 12 novembre 2013

Il ragazzo partorito da Urano *.




Sara non riusciva a staccarsi da quelle foto, dagli occhi di lui in quelle foto. Due carboni verdi, fermi ma alacri. C'era in essi un'energia che racchiudeva tutta la sua anima, sembrava che ogni cosa della sua anima fosse passata in quello sguardo. Anima di ragazzo fermo, concreto e fortunato. Aveva questa idea, che lui fosse stato fortunato più di lei: bella famiglia, bei genitori, bel fratello bella fidanzata (amica di famiglia). Eppure non aveva l'aspetto del figlio di papà. Ogni impresa della sua vita, secondo Sara, lui se l'era presa, inizialmente per provare ai suoi che lui valeva perché era efficiente, poi ci aveva fatto magari l'abitudine e gli piaceva. Così, gli si era sviluppata, in questa specie di solitudine conquistatrice, una particolare sensibilità. Particolare nel senso ristretto della parola: era una sensibilità acuta, non languida, così nascosta come evidente. Una sembianza che ispirava tenerezza, senso materno e dolcezza. Aveva espressioni che a Sara, ricordavano un fanciullo diligente delle elementari o a tratti, un uomo responsabile e rigido.
Quel suo fare silenzioso, resistente e serio, rimandava a Sara l’immagine del musicista erotizzante, che chissà come mai, aveva così presente nella sua testa. Il ragazzo disciplinato e regolare, l’uomo col bianco e nero nella marsina e nella mente, che si accosta con calma e classe al suo posto nell’orchestra; che è solo, dentro ad essa: concentrato e raccolto  col suo strumento, col suo spirito e col suo spartito; che sa, che lì, in mezzo al pubblico, almeno una persona che pensa a lui esiste sempre. Zitto, per ascoltare se stesso e gli altri. Quel silenzio unito a calma che fomenta. Esecutore misurato, bilanciato, nel suonare note che spingono forti emozioni e eccitazioni. Pensò a Salomè e la danza dei sette veli di Strauss, che aveva visto anni fa in un teatro; pensò a quella danzatrice e a quanto erotismo possa uscire da sussulti di musica classica, pensata così pudica e resistente.
“Ho la doccia fuori uso in casa, non è che potresti farmi usare la tua?” Così una sera di agosto lui le scrisse in chat, mentre lei struccata e nuda si era messa al computer, stesa nel suo letto. Quest’insolenza - mischiata a immediatezza e anche a un pizzico di astrusità - le fece pensare a una striscia di un fumetto erotico, a quelle storie dove i personaggi osano, magari perché il loro ideatore ci è passato, o anche perché il mondo sarebbe così coinvolgente, se tutti fossero così fanciulleschi e diretti, (diretti proprio come in una storia per l’appunto).
Lui era nella doccia a lavarsi. Sara aspettava nel soggiorno, seduta nel suo divano rosso, pensava e non pensava, cercava soprattutto di godersi quell’attimo. Situazione strana e singolare, presente per quanto scollata. Il computer era rimasto acceso e lei si mise a finire una conversazione in mail con un altro uomo che le piaceva, più grande di lei. Sara trovava delle somiglianze tra i due uomini, anzi più che somiglianze delle ripetibilità intese come “sincronicità junghiane”. Tutti e due erano musicisti. Alessandro era stato all’accademia della Scala, mentre Ruben, sebbene anche lui diplomato al conservatorio, amava tutto ciò che veniva dalla strada. Uno suonava il fagotto dal timbro sicuro e pieno, l’altro i diversi e disordinati suoni del sax. Alessandro era molto più giovane di Sara, un ragazzo che si comportava da uomo; Ruben più grande eppure un uomo dai movimenti adolescenziali.
“Il fagotto è uno zio lontano del sax”, le aveva spiegato Ruben. A una profana come Sara, i due strumenti, parevano somigliarsi per forma e per il modo in cui venivano maneggiati. Entrambi strumenti liberi, con suoni ben vivi all’interno di un’orchestra; più potente,disordinato e sensuale quello del sax, più tenero e malinconico il fagotto. Il fagotto col suo suono claunesco, le faceva pensare a un giovane ragazzo così com’era Alessandro: idealista, genuino come quel legno, dolce e di un romanticismo sotterraneo e taciturno; che mai rendeva palese la sua malinconia; come il fagotto, anche lui apparteneva ad altri tempi.
Alessandro uscì a torace nudo, il suo corpo abbronzato, strideva con la porta a soffietto bianca del bagno. “T’infastidisce vedermi così?” Era una domanda che lei si aspettava, chiusi e soli dentro il soggiorno, a pochi passi dal letto e a un palmo da un divano rosso. Lei disse di no, e si mise a raccontargli di un certo maestro di ballo che conoscevano in comune. In quegli attimi, a Sara, non le sembrava di desiderarlo, ora che lui era lì, non lo voleva come quando era sola in casa a leggersi le sue parole nella chat. Erano le parole che solitamente colpivano Sara. Quei suoi sguardi oltre le sue spesse lenti degli occhiali, erano scorse interessate alle parole, alle scelte e ai tempi nelle parole. I suoni non li poteva sentire lì, ma li capiva ugualmente dagli intervalli e dal numero di parole che un uomo usava. Così poteva sentire il suono di un uomo (forse anche Beethoven usava questa tecnica?).
Fuori era notte fonda, diversi rumori entravano in quell’appartamento dal bar sottostante. La luna era crescente e di un grigio-blu. Alessandro invitò Sara a quel bar e uscirono. Tutto fuori richiamava l’età adulta di Sara: quei ragazzini al bar e la loro musica, le lattine di coca cola, la musica e i tanti motorini parcheggiati. Cose e atmosfere, che mai le erano appartenute in quel modo, quando lei aveva avuto quella stessa età. Alessandro le stava poco più avanti e lei ne osservava il corpo, era vestito con una maglietta, dei bermuda e delle infradito. Schiena, natiche e gambe perfette, non vedeva alcun difetto in quel corpo.
“E’ così tanto tempo che sono single, che ho quasi paura di non essere più capace di tornare in coppia”; a quelle parole così nutrite e lanciate là da Sara, Alessandro sentì tutta la sua delicatezza spesso imprigionata dietro quelle lenti. La abbracciò lungo le spalle, le baciò il collo e poi la bocca, Sara non se lo aspettava e ogni imprevisto per lei era come un sogno, fonte d’intatta eccitazione. Sentiva le mani di lui così affusolate e amabili; gliele aveva osservate al bar e ora le rivedeva oltre che sentirle: una che le toccava un seno e l’altra accarezzarle i suoi capelli. Salirono in casa e come entrati, una foga assalì entrambi, ma lei gli resistette e lo guardò: le arrivò l’immagine di lui che suonava in un’orchestra, lui col suo tocco delicato e maschile, che guardava lo spartito, e le sue braccia che tenevano quel “bassoon solo”. Le note nere sul bianco, i colori della musica.
Sara prese una sedia e alzata lievemente la gonna, si mise a cavalcarne la spalliera, si strofinò su di essa, guardando il ragazzo negli occhi come a sfidarlo. Lui le prese la testa come a volergliela portare verso il suo membro ma non concluse, l’afferrò lungo le orecchie per bloccarla e la baciò.
Le dita, così leggere di lui, ora le sentiva scendere lungo i fianchi, le alzavano la gonna, le spostavano le mutandine. Sentiva il suo respiro calmo, fermo da silenzi, toccarla e penetrarla assieme a quelle dita. La calma di lui la imprigionava. Lo sentiva quasi come un riposo di ponderazione, il silenzio prima di pubblicare un suono; ma anche un silenzio per ascoltare i loro suoni, i suoni attorno, così come lui era abituato a fare da sempre.
Sara pensò in un attimo che anche per lei, così come per i genitori di lui,“un uomo doveva essere in grado di fare”. Lui muoveva le sue dita e il suo respiro come col fagotto anche nel corpo di Sara.
Lei si mosse e Alessandro la prese con nerbo. Si ritrovarono addossati l’uno sull’altro sulla lavatrice, lei completamente nuda, posata in quel gelato bianco smaltato e sopra il corpo di lui, ancora vestito in parte; lui le stringeva i seni, la baciava al collo e giù scendeva per la strada della schiena. Sara si voltò a guardarlo: i suoi capelli castani e folti, le sue spalle plastiche, le mani che le brandivano le natiche. Poi rigirò il capo verso il muro, chiuse gli occhi e stese ancora un po’ le sue lunghe gambe, ad assaporare il piacere.
Questa donna più grande di lui, questa donna così difficile, confusa e complessa, macchinosa quanto il suo fagotto. Alessandro la guardava da dietro, guardava soprattutto le sue gambe che quasi si stringevano per nasconderne il sesso; le sue natiche gli ricordavano un sedere di bambina, innocente e spudorato. Con quelle gambe lei fremeva all’attesa di un gioco e le allargava; il ragazzo gliele toccava fino ai fianchi e poi di nuovo giù, tutta la sua mano attorno alle circonferenze dei due arti, lisci e castani come un legno di acero. Con le sue dita le inondava il sesso e i sensi, penetrava in quel incavo stretto, e dentro e fuori gli umori di lei salivano assieme alle voglie.
 Ne ascoltava i suoi sospiri rumorosi, suoni pieni e quasi neri.
Sara udiva dolcezza da quel corpo giovane, Alessandro leggeva i sospiri di lei come fossero espressione di desideri interrotti, che qualcuno anni addietro le aveva proibito.
Dopo quella sera, non ebbero modo di rivedersi. Sara a volte lo ripensava con una rosa in mano, comprata da lui senza impeto ma con riflessione e un po' di sentimento e poi una volta in palmo, sentita, osservata così come faceva con la ragazza cui era destinata. Quegli occhi vispi che guardavano quel fiore, le labbra che accennavano un sorriso indocile, sì!, Alessandro si specchiava in quella rosa rossa, piena di contrasti come lui.

*Urano secondo l’astrologia, è il pianeta legato alla musica, alla follia, ai dirottamenti.


sabato 21 luglio 2012

Elettrico blu


Quando uno vive in centro trova praticamente tutto quello che gli serve
(C. McCarthy - Suttree)

Carmela era dentro a un sogno invernale, fatto di un cielo di metallo e di cobalto, dentro il suo appartamento così poco ricercato.
Il suo, era un appartamento di quelli costruiti negli anni quaranta, nel dopoguerra. Ex case popolari di un quartiere chiamato ironicamente Hollywood. Appartamenti a due stanze più il bagno. Il bagno con la finestra. La camera da letto costruita in modo da far dormire genitori, figli e nonni assieme in un unico luogo. Le scale della palazzina  fatti di graniglia stretta, i pianerottoli invecchiati da quadri e vetri sottili e nebbiosi . Rumori di radio e TV, voci di anziani e una madre isterica al piano di sopra. Odori (oh gli odori, carattere più prominente della narrazione!,) che vanno dallo stantio ai più alti livelli di cucinato tradizionale, di brodo, o di carne ben cotta. Il contratto di vendita, includeva  anche una piccola capanna-box, giusto il posto per un’automobile piccola e una bicicletta.
In un giorno di neve, si ritrovò un pupazzo di neve proprio davanti al suo garage. Salì in auto e messa la retromarcia, lo distrusse; poi le dispiacque un po'. Guardò quel candore scomposto  a formare un ammasso e pensò al bambino del piano di sopra, a come ci sarebbe rimasto male. Però non salì a spiegare la faccenda e nessuno le chiese i suoi motivi. Strane figure genitoriali albergavano sopra la sua testa; sentì in quell’azione tutto il suo cinismo e la sua aridità di quei giorni.
Quel quartiere, popolato da anziani e adolescenti, l’aveva sempre affascinata. Vi era lo sbocciare e il chiudersi, vi era la semplicità e la banalità curiosa, e gli oriundi, le razze e le estrazioni mescolate. Ricche villette liberty affianco a casermoni un tempo popolari. E nel suo appartamento,  aveva vissuto (come lei ora), una donna sola, ma con un figlio. E se la immaginava, questa ragazza madre di altri tempi, alta e magra quanto lei (ne era una prova quel lavandino a misura), con un fratello - unico uomo che oramai passava, che le portava regali dai suoi viaggi dalla Cina: servizi da tè, stampe di paesaggi locali e seta  - . Se la immaginava quella donna, quando, dopo i suoi lavori domestici ossessivi, si sedeva fuori nel balconcino, magari a guardare il figlio che sotto giocava solo. E ora anche Carmela, si muoveva altrettanto sola in quelle mura, con anche alcuni stessi mobili appartenuti a quella, ed era come se santificasse, o meglio come se rendesse poesia, la sua presenza, a quella donna, con questa continuità.
Prima di lì, aveva vissuto con sua madre. Era in una casa di un borgo medioevale, circondato da colline e da mura a chiocciola. Vi era un'unica apertura in quel paese e questo rendeva il tutto soffocante per chi ci abitava (oppure, al contrario, poteva sembrare rassicurante, ma così non era per lei). L'uscita di quel paese, si affacciava davanti all'unico bar del posto e questo permetteva agli sguardi di molti, di entrare villanamente nelle vite degli altri.
Quando, di domenica, se ne usciva con suo fratello e la madre per recarsi alla funzione religiosa evangelica, tutti li vedevano e Carmela avrebbe voluto essere trasparente. Questo desiderio e  paura di essere invisibile, rifiutata, o mai esistita, la attanagliava già da un po', dalla sua adolescenza e il suo corpo, seppur affatto minuto, sembrava diventarlo, piatto e invisibile. Lei lo percepiva come magro e nascosto: nascosti i suoi seni, le natiche e gli occhi. Quegli occhi così grandi, il cui modo di stare spalancati, le venne un giorno rimproverato da una sciocca maestra d’asilo.
Carmela della sua infanzia, ricordava poco, di più i ricordi della sua fanciullezza: cenere calda portata nei letti per riscaldare i corpi in inverno, guanti piccoli senza dita fatti coi ferri dalla madre;  la "cantina" col pavimento di terra, i tanti oggetti dei nonni, non usati ma lasciati lì.
Vicoli di un paese stretto e maligno, ma dove anche persone a modo le fecero da mamma. Ricordava la signora col marito cieco dalla nascita e con un gatto siamese ben difeso. Ricordava la signorina dasemprezitella, che aveva una governante, un pianoforte e nel bagno al posto della carta igienica dei fogli di giornale ritagliati a quadri. Ricordava la casa di sua nonna, la matrigna di suo padre, una casa molto particolare con atmosfere da vecchi mobili e rudi pavimenti; un'atmosfera mischiata di anni cinquanta e settanta, a causa dei suoi veri figli che in quegli anni, “i mitici anni settanta”, erano nel pieno della loro gioventù.
Carmela aveva, per uno strano destino, zìì giovani da parte del padre e cugini grandi (della stessa età degli zii paterni) da parte della madre. Questo per il fatto che suo padre era il primogenito e la madre l'ultima figlia, concepita da uno sbaglio di una coppia in menopausa.
Paese contornato da mura ristrette e ristrutturate. Al di fuori di esso, meno male che vi era la campagna tanto amata da Carmela: sentieri che vi ci portavano, alberi antichi o sottili, cieli sereni deserti o puntinati da rondoni. Quante volte lei vi si rifugiava in compagnia di una sua amica o della sorella. Spesso assieme alla madre vi andava a raccogliere rami secchi da bruciare per l'inverno o erbe amare per la cena; conosceva tutte le erbe commestibili, le piantine rampicanti selvatiche, le bacche più appetibili. Tornavano dalla campagna, lei e sua madre, come se avessero raccolto l'oro in quei pomeriggi di sole primaverile o estivo. Ma anche durante l'inverno, era bello andare dentro a quei grigi e marroni di umido e di terra, di zolle e di strade sterrate, di sassi freddi e di odore di fumo di camini delle altre case.
D'estate, Carmela, spesso si sdraiava nell'erba per poter vedere il cielo senza sforzo e ci sarebbe rimasta per ore così, come un corpo senza vita, ma un'anima presente, sola, lontana da tutto il resto che non fosse quel cielo terso. Pensava spesso che il cielo e gli alberi fossero le opere più semplici ma al contempo più strane del creato. D'altronde la natura è sempre all'aspetto semplice, leggera, ma solo all'aspetto, così come lei ora. E quegli alberi "ramati" come si divertiva a chiamarli lei, e quel cielo pulito, vero, che conteneva il vero color azzurro, la portavano fuori dal mondo ma anche profondamente in quel mondo, alla vera e concreta essenza della Terra. Piccoli passi, piccoli e duri passi su quel selciato di strega, di apologhi con la strega.
A primavera, tornavano a casa, sempre a mani piene. La madre con sacchetti pieni di erba di campo e lei con mazzetti di fiori: margherite, violette di bosco, nontiscordardimé e anche di fiori gialli e lucidi (di cui ancora non conosce il nome); di rametti di biancospino o di fiori di pesco. Carmela entrava a casa, con l'odore di pomeriggio e di erba, prendeva un bicchiere e lo riempiva di  acqua per metterci quei  prodotti gratuiti. Poi si sedeva in una di quelle sedie di formica e osservava la madre intenta a poggiare i suoi tesori nel tavolo; a volte l'aiutava a selezionare quelle erbe, o mangiavano assieme un frutto preso su da una proprietà privata. La madre spesso le parlava di quei fiori, del loro odore o della loro forma e lei ascoltava senza ribattere. Tempi primaverili lì, odori di  fanciullezza.
Le notti invece, Carmela le faceva molto meno assieme alla madre. Spesso se ne stava in silenzio e sveglia nel suo letto. Il fratello che dormiva nel lettino accanto, che si addormentava sempre prima di lei (quando anche lui non riusciva a dormire, gli diceva che lo avrebbe aspettato e lo faceva sempre, sforzandosi di non addormentarsi). Nelle notti estive, quando a piena oscurità non dormiva ancora, si alzava dal letto, si affacciava alla finestra aperta e se ne stava lì, ad osservare le colline, colline nere o verde petrolio. Le stelle e la luna si vedevano bene da quella casa di borgo, pochi e soffusi erano i lampioni, nessun lampionaio, ma pipistrelli che fremevano attorno a quelle luci di vetro battuto, e ferro luccicante. A volte restava sveglia fino all’alba, e sentiva, poco alla volta i rumori di chi si svegliava per primo: passeri o rondoni, aria pulita, cingoli di motori di un contadino. Osservava molto anche la luce che dal buio, risaliva tenue, piano e accompagnata da quei suoni freschi di aria e di terra. I lampioni ancora accesi, ma fiochi così come la luna. Ed era all’alba spesso, che  si riportava  nel suo letto per addormentarsi.
Una mattina presto volle anche uscire di casa, per vedere il paese deserto, all’alba. Lo fece solo una volta e non si lasciò memorie su quel giorno.
La luna notturna la rispecchiava, così sola e silenziosa. Ma mai si soffermava a lungo a guardarla come invece fa oggi, a quarant’anni. Il cupo sorriso dei vecchi in paese le ricordavano la luna, cosi come quell’antenna radiofonica, situata su una minuscola e triste collina. Ma mai aveva pensato alla luna come così vicina a lei, lei così cupa. Una sera, ad una cena di lavoro in pizzeria, un medico lì presente, precisò davanti agli altri che lei non era solare, come la forma del ciondolo  che le regalarono, ma lunare. A lei questa cosa la intristì parecchio, ma non poteva certo dire il contrario. Fu lo stesso quando, un  ragazzo, che a lei piaceva (così come quel medico), la descrisse come non brillante di luce propria, ma cupa come una nebbia in un paesaggio di un nero  gotico. Ora invece, ne era quasi fiera di questa sua anemia. Luna bianca come la sua pelle, misteriosa e introspettiva, “Luna che chiama i poeti legati al cielo, così come i navigatori al mare” e i contadini alla Madre. Il fuoco che le arriva di riflesso non abbaglia, ma mostra in tutta la sua bellezza, la luce vera del suo Sole, che forse è incerto, ha delle incertezze il sole, su questa propria luce.
La madre di Carmela anche, era una luce strana  e solitaria, avente anche una sua rima, di madre. Madre scomposta, scomoda e lacrimosa. Quella campagna attorno, era e non era parte di loro, così entrambi poco terrene e  pratiche. Infatti coglievano dalla terra solo le parti più amare e ombrose, o quelle delicate di cespugli freschi, o petali feriti dai raggi di sole.
Lune fiamminghe, volti fiamminghi e malinconici. La Luna dei felini combattivi e delle streghe epifaniche. La Luna artificiale delle sale da ballo e dei ritrovi. Luna spezzata o fatta piena dal suo sole. Il bagliore dolce e sensuale di una donna segreta, nascosta, ma da un’ombra assai visibile.
Carmela un giorno, quasi come d’improvviso, capì, che ciò che la rendeva una triste luna come nascosta nella nebbia, le avrebbe anche regalato un mistero fascinoso. Lei era una Luna, non certo una stella tra tante, e questo era l’appunto che le era stato inviato come un regalo. Iniziò così ad osservare la luna, a studiare tutto ciò che  la riguardava: astronomia e astrologia, esplorazioni , passaggi e paesaggi lunari, così come la luna nell’arte. Diventò come un traffico maniacale per esplorarsi e capirsi; in ogni insegnamento da queste discipline, coglieva un aspetto di lei e dei suoi rapporti con gli uomini. La poesia era giornaliera, le immagini arrivavano come ricamate da Dio. I desideri inviati partivano sempre e arrivavano a destino (e a destinazione).
Questi tempi del passato, così crudi, malinconici e forse anche austeri, erano ancora più presenti che l’oggi. Carmela se ne stava sopra il suo letto, le mani  all’addome, come dovesse proteggere, lì dentro, un contenuto. Guardava il soffitto e la parete a destra del letto color magenta chiaro. Quel colore le ricordava senza dubbio la sua fanciullezza, i giochi in paese , “color color …”. Le vennero in mente un paio di zoccoli rossi che da piccola le piacevano tanto, e anche un vestito a fiorellini gialli, bianchi e rossi. Certo che sarebbe stato bello rivedersi in un video, o anche una foto, ma nessuno aveva fermato quegli attimi. Degli zoccoli di vernice rossa e lei, che se ne stava così, vestita e  seduttiva  davanti agli altri bambini.
Carmela se ne stava sopra il suo letto ad aspettare una fine. Una fine tra tante, ma aspettava la morte e rinveniva la sua vita. La sua vita era soprattutto quel passato di fanciulla. Emozioni, pensieri fatti di curiosità e osservazione. Invece la sua vita presente sembrava essere solo passività
Le vennero anche in mente i visi che aveva incontrato nella sua vita: una donna sicuramente molto forte era Valentina, stuprata dal padre sotto gli occhi accidiosi della madre fin da piccola. Eppure ora faceva l’infermiera in un pronto soccorso, aveva due figli sani e ringraziava ancora la  vita, questo ricordava Carmela, che era una donna che sapeva ringraziare la vita; vita che voleva incanalarla verso la pazzia forse, ma la sua forza atavica, scura e di bambina non lo permise. Probabilmente era la donna più forte che aveva conosciuto. E poi le venne in mente Stefano, che frequentò con lei le superiori e che non rivide più da quando aveva sedici anni. Lo riconobbe, in cura  in un ambulatorio. Lo ricordava perfettamente quando, ancora adolescente era suo compagno di banco alla scuola professionale per il commercio, ragazzo chiuso sì, ma mai quanto lo era lei al tempo. Probabilmente si riconobbero entrambi per la loro sfiducia e paura dell’altro. Solo che lei da sola riuscì a vedersi e a sfogarsi, mentre lui fu indicato dalla madre al centro salute mentale all’età di ventidue anni, per il suo isolamento delirante.
Poi sua sorella e il suo bambino, suo fratello e sua madre. La sua famiglia. Tutti aspettavano come lei ora in un letto il finale. Magari neppure arrivava e così si sarebbero potuti riabbracciare, e vedersi tutti con i nuovi occhi alleggeriti dall’attesa della morte … ma forse nemmeno.
Pensò a Marco, ragazzo dai capelli morbidi, a come si erano lasciati nel suo letto, guardandosi un palpito di cuore acerbo.

Nota: si credeva in quei giorni, che presto il mondo sarebbe finito. Quindi era vera, alla fine, la storia del giudizio universale. L’universo si muoveva avvicinando lune, costellazioni e pianeti. Si sapeva che Urano, il pianeta del cielo, stava perdendo quel blu cobalto che lo contraddistingueva (come astro nuovo e anticonformista), per assumere il colore della terra a lui innaturale. Si era visto anche che Saturno, ultimo pianeta antico, aveva oramai solo un anello sottile e invisibile, la sua leggerezza teneva oggi misure storiche; metameri che lo avevano abbandonato tuffandosi in zone più dense. Venere, Marte e Giove si attaccarono alla costellazione dei Gemelli. Mercurio solo rimase dove era, per poter raccontare ai posteri ciò che successe quel giorno.
Il cielo aveva assunto un colore verde ossidato, la terra iniziava a sgretolarsi e come pane secco lasciava briciole di materia verso i suoi luminari; c’erano da un po’carenza di acqua e sole ravvicinato. Le persone, abituate a ciò gradualmente, parevano non accorgersi. Il dolore si era sparso e lasciava i molti indifferenti, senza pietà né compassioni. Forse quando fu creato il mondo, il suo progettista pensò  che la fine era bene non si sentisse tra gli umani: per non creare frastuono, confusione, o amplificare le loro paure. Per non creare pianti di bimbi o urla di madri. Doveva essere una fine graduale, come un scomparire di nuvole o di nebbie, come un sollevarsi o un calare di maree. Niente carestie, pestilenze o terremoti dunque ma apatia, distanza. Come un calore artificiale.
La città contiene il centro della vita, usciremo in campagna per svagarci.





lunedì 16 aprile 2012

Butterfly Effect

Anima blu e arancio.
Chissa' cosa stai a pensare.
La tua lingua ferma così come i tuoi occhi e le guance
Le labbra vorrebbero dire, vorrebbero trovare il sapore estivo dei ciliegi e delle fragole selvatiche
Il naso osserva la primavera vogliosa
I piedi hanno unghie dipinte di aria respirata di notte vicino a lui
Le mani aspettano la stretta di un attimo
Le ossa, gelose del mio seno resistono ancora come sempre
le braccia penzolano come un'altalena e la testa gira gira gira
Sento dal dentro il clap clap delle farfalle
volano lontano e rubano, solo per me, un desiderio.
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sabato 25 febbraio 2012

Luna a barchetta

Delicata
raffinata
sottile
leggera

nella mia ombra vivo
così rara e invisibile

il sole illumina la mia parte bassa
e così facendo mi solletica

dondolo di piacere
sorrido nell'acqua notturna

schivo ricordi passati
tramuto in anime i cuori spezzati.

martedì 21 febbraio 2012

Luna

Raccolgo i tuoi silenzi,
intanto gioco a sciocchezze.

Canto le ore non dette,
ritraggo il fuoco
e fuoco non è più

vi è aria salmastra e leggera quassù,
è il mattino a impallidirmi
e a mischiarmi col resto del mondo.

La sera è la mia casa
quì non vi è vergogna alcuna,
quì vi è desiderio

il tuo amore puoi rifletterlo su di me
la mia bellezza fiorirà ancora
e la mia luce opaca ti tranquillizzerà.

mercoledì 25 gennaio 2012

Valzer dei ricordi.

La prima volta che lo vide fu davanti alla porta di casa dell'allora suo appartmento in affitto. Da ciò che si era detto di lui, Sara si era fatta un'immagine di ragazzo dal viso chiaro e quasi angelico, invece le apparve  alla porta altissimo e con lineamenti forti e maschili...le ricordava un che di scimmiesco o meglio un che di arcaico quasi, ma biondo. Come un'immagine da libro delle elementari sugli antenati primitivi.
Oggi, erano passati anni da allora ma Sara ricordava ancora come si sentì in quel mentre. Si sentì fortemente inadeguata a quella situazione. Due sconosciuti piombati nel suo appartamento, appartamento tra l'altro piccolo per la loro costituzione fisica. Vergogna di lei e inadeguatezza del rapporto che era in obbligo e in procinto di crearsi. Lui le piaceva già da ciò che si era detto sul suo conto, ma ora lei, lo sentiva come un ragazzo diverso da quell' immagine uscita da una descrizione. Un ragazzo egoista. Ecco fu quella la sua primissima impressione... Questo fu il primo impatto. A distanza di anni, Sara riflettè che più che egoismo era narcisismo. Era la prima volta che incontrava un narciso forse, o sicuramente la prima volta che ci rifletteva.
Quel giorno andarono tutti al mare. E lei fu allora che ne fu colpita. Lui metteva passione in quel gioco di sassi lanciati, lui lanciava quei sassi marini e senza saperlo la colpiva, la colpiva con lo sfoggio dei suoi libri e della sua curiosità presente in ogni cosa. Curiosità passionale e malinconia  e abbandono nel corpo e negli occhi, non aveva ancora trent'anni...

Il suo nome: Davide, lo stesso nome di suo cugino. Sara aveva un cugino più grande di lei di quasi vent' anni, che aveva sostituito a volte la figura di suo padre. Era un uomo efficiente, rassicurante, sicuro di sè, al quale anche la madre di Sara si rivolgeva per avere aiuto o consigli. Era una figura idealizzata da tutte le donne della famiglia.  Ricordava ancora quando da piccola, all'età più o meno di quattro anni, tra le sue braccia lei gli promise la sua mano. E fu l'unica persona con il quale Sara pianse la morte del padre. Sì, un uomo decisamente troppo idealizzato.
Con Davide iniziò il periodo dei narcisi e della fioritura di cose ferme o nascoste. La fioritura da semi soffocati dal freddo e il nutrimento semplice e naturale con l'acqua alle radici ancora salvabili.
A lui piaceva chiamarla Teresa, nome preso dal personaggio di Tereza ne "L'insostenibile leggerezza dell'essere".  Tereza/Teresa che tutto trasforma in epifanie e che soffre come una bestiolina, come un cucciolo di cane, per i suoi sentimenti. Straziante per ogni cosa, che ama con tutta se stessa a causa della sua passione e non lo fa quasi mai in silenzio. Teresa /Tereza che si allontana da quel comunismo da paese dell'est d'Europa o da setta americana. Tereza/Teresa con quella madre pesante e ospedalizzata.
E lui poteva essere Tomàs ma anche Edward mani di forbice (di Tim Burton). Quell'aria malinconica che affascina tutte le donne, - Sara pensava sì, - non c'era donna a cui non piaceva. La madre di lui le aveva detto che è o amato o odiato e le aveva annuito sul suo gran cuore.
Le sue mani creative come  quelle di Edward, però non possono abbracciare senza ferire o ferirsi. Sara lo abbracciò insicura. Nessuno descrive meglio di Edward il patema di un narciso, e le favole restano pur sempre leggere.



lunedì 23 gennaio 2012

Una sera.


Mi guardava con aria di sfida, del tutto fuori luogo, artificiale, tipica di chi ha sofferto terribilmente la timidezza e l'ha combattuta con tutte le sue forze, e ancora oggi rimane vigile, attenta a non ricadere nel vecchio modo: occhi chini sul pavimento e torcersi le dita sul grembo. Ricordava una donna non più giovane che travolta da un orribile dispiacere prende a indossare vestiti e fiori e a truccarsi in maniera grottesca, una donna uscita dalla propria vera natura e identità che comincia ad abitarne un'altra per dimenticare il suo strazio, come se quegli abiti emotivi non fossero davvero suoi e lo diventino solo, grazie a un desiderio smodato, un'ostinazione di lasciarsi alle spalle un passato che fa franare la vita in un buco nero e irraggiungibile in cui non c'è salvezza anzi c'è morte e disperazione, una morte in vita, una lunga vita morente.
Il suo respiro era pesante per l'eccitazione, come se il fiato dentro fosse talmente tanto, e potente, e quel suo naso sottile, greco, troppo piccolo e delicato per buttarlo fuori tutto. Il rumore di quel respiro che faceva da sottofondo alla conversazione ricordava quello di un vecchio che dorme sul divano, immagine malinconica, come anche il resto di lei, i suoi vestiti in cerca di una femminilità decisa, decisa a cercare e procurarsi piacere, e finalmente vivere, ormai donna, esperienze erotiche senza freni.
Dalle mail, le belle mail selvagge che a volte inviava ad Andrea per dirgli di un libro, o raccontargli un'esperienza, una riflessione o un desiderio, s'intravedeva alle spalle di quella scrittura ansimante e accaldata, un mondo tutto fiori e quasi felicità mentre quando la rivide ebbe l'impressione di trovarsi di fronte a un banco di nebbia coi capelli di un nero gotico; la sua figura, in mezzo a quella sera d'estate pareva uscita da un paesaggio pieno, grave, coperto di solida nebbia e il suo corpo, come anche l'espressione, gli pareva che appartenesse a una persona che da poco si è accorta e con furiosa intensità che la vita è una questione complicatissima e drammatica; e la sua giacca e il resto parevano modellarsi, come una statua di nebbia; il pallore, gli occhi intensi, grandi, che avevano un bel colore, di argini fangosi di fiume e di foglie imbevute di umidità, un marrone chiaro ma fradicio di umore, e con lievi ferite ai lati, traccia forse di dolorose operazioni.
 Mi guardava con quell'aria di sfida e una mano sul fianco, come la tengono le sapute mentre osservano la scena prima di commentarla, lasciando trasparire con tenue scherno il loro disinteresse. Eppure, nonostante quella posa da zingara, due delle sue dita non potevano fare a meno di tormentare il passante della corta gonna di jeans che indossava; e tamburellavano sul fianco con un ritmo che poteva essere, anzi quasi sicuramente lo era, linguaggio. Forse voleva esprimere, davvero non so cosa, una paura antica che sempre quasi presente l'accerchiava, come pipistrelli attorno ad un lampione, una indistruttibile paura dell'altro che Andrea conosceva molto bene.
(cont...)

di F. Belacchi - Cinque racconti e una resa dei conti



Io sono una selva e una notte di alberi scuri, ma chi non ha paura delle mie tenebre troverà anche pendii di rose sotto i miei cipressi.

di F. Nietzsche